"PAPA', TU SEI COME LA MOZZARELLA DI BUFALA: DA FUORI SEMBRI UN PO' DURO, MA DENTRO SEI MORBIDO". Una figlia dal nome corto.
mercoledì 5 dicembre 2018
UNA LETTERA.
Ciau me amis. Ti saluto così, come abbiamo fatto negli ultimi anni, via messaggio ed a volte anche a voce.
Oggi è il tuo compleanno, ma non ci sei.
E’ la prima volta dal 1972. Avevamo iniziato la prima elementare da un paio di mesi, la scuola allora iniziava nei giorni intorno al mio compleanno.
Da allora, e fino ai primi giorni di giugno di quest’anno, potrei elencare centinaia di episodi, situazioni, momenti passati insieme. Alcuni me li tengo ancora per un pò, diciamo che le mie figlie sono un po' piccole per saperli. Ne uscirebbe un libro, dai ricordi di quasi 46 anni di amicizia, sono sicuro. Magari qui al villaggio qualcuno lo comprerebbe anche, chissà. Perchè sei stato una persona famosa in valle, fra le più conosciute forse.
Alcuni episodi, invece, non me li tengo.
Eravamo seduti vicini il giorno dell’esame di seconda elementare. Un maestro finisce di dettare il testo del problema di matematica, tu ti alzi in piedi e dici ad alta voce la soluzione. Spiazzando tutti, grandi e bambini. Così, in un attimo, avevi risolto il problema mentre lui dettava. Anni dopo, passati quei 40 giorni a giocare a biliardo, dovevo scegliere un’altra scuola, fu naturale per me scegliere quella dove ti eri iscritto tu. Poi andò altrimenti. Per entrambi le carriere scolastiche non sono state brillanti. Diciamo che ci siamo realizzati in altri campi.
Eravamo insieme il giorno della visita militare, tu ti sei presentato con una tessera dell’autobus o qualche documento simile al posto della carta d’identità, e il carabiniere baffuto ti ha cacciato. Ci sei tornato da solo alla visita, nello stanzone è entrato uno che ha chiesto “chi vuole mangiare bene durante la naja?”. Sei finito nei parà, era una fregatura quella domanda. E così sei finito a Trapani in tenuta da guerra, quella notte in cui Gheddafi sparò un missile nelle acque di Lampedusa.
E quante volte ho fatto cena doppia, prima a casa mia e poi da te, mentre guardavamo le partire di calcio alla sera. A volte giocavano più squadre nello stesso momento, mettevamo due televisioni una sopra l’altra, una sera addirittura tre, non ci si capiva niente. Era bellissimo, la sentivo come la mia seconda casa.
Ti ho aspettato quel giorno, dovevamo giocare a tennis, ti ho anche lasciato un biglietto sulla macchina “sei un bidonaro”, ci ho scritto. Eri in quel prato di Barge, senza una gamba. E quando venni in ospedale da te, e quando finalmente riuscii ad entare in stanza dopo minuti di esitazione, la prima cosa che mi hai detto è stata “sono contento, ho pettato, vuol dire che l’intestino funziona”. Et voilà, spazzate via tutte le baboie in un attimo.
Ho fatto il concorso al Rifugio per due motivi. Uno sei stato tu, che eri già lì. In qualche modo devo a te il fatto di avere trovato un posto di lavoro che mi ha dato così tante soddisfazioni.
E poi Creta due anni fa, di fatto l’unica volta che abbiamo fatto una vacanza seria insieme, pare assurdo ma è andata così. La foto che si vede qui sopra te l’ho fatta là, in mare, mentre mangiavi un’anguria. E’ simbolica, per me. Sei stato un godereccio, ed hai amato il mare.
Dai primi giorni di ottobre del 1972 alla prima domenica di giugno del 2018. Chiaramente non mi ricordo quali furono le prime parole che scambiammo. Mi ricordo invece quali sono state le ultime, riguardavano il cibo. Non a caso.
Quella è stata una delle tue passioni, quello è stato uno dei modi con i quali hai fatto stare bene tante persone. E’ stata una delle cose che ti ha trasmesso Serena. Come ho detto al palazzetto del ghiaccio quel giorno, sei stato così perché lei è così. E’ quasi crollato dagli applausi lo stadio in quel giorno senza ghiaccio, quando ho detto quella frase . Quel giorno avrei voluto essere in ogni posto, tranne che lì. Anche se è stato un onore immenso, sarò sempre riconoscente nei confronti di Guido che me lo ha chiesto. Ma l’applauso era per te, per Serena, per la tua e la sua positività nell’affrontare gli schiaffi della vita. Che non sono stati pochi. Si sono alzati in piedi, tutti, tutte. Mi vengono i brividi a pensarci.
Non l’ho detto a nessuno, lo dico adesso. Io, nell’ultimo anno prima che te ne andassi, quel momento me lo sono immaginato, più e più volte. E mi immaginavo che avrei parlato, ma subito dopo mi dicevo che questa eventualità era impossibile. Invece, guarda com’è andata.
Sei stato la mia relazione di vita più lunga, dopo quella con mia madre (per evidenti motivi). Per entrambi la relazione di vita con i nostri padri è stata troppo breve. Per te più che per me. E poi il destino ha replicato, purtroppo.
So che per certi versi sono stato un amico nell’ombra, qualcuno forse nemmeno lo sapeva, alcuni me lo hanno anche detto dopo quel giorno al palazzetto. E non è stata una amicizia che ha avuto sempre la stessa intensità. Siamo stati anche lontani, seppure non distaccati, per qualche anno, ognuno impegnato a costruire cose importanti. Io per te forse un po' troppo sobrio per la tua natura esuberante, tu per me forse un po' troppo festaiolo per la mia natura da orso. Ma è stata solo una parentesi, cosa sono pochi anni di fronte ad un tempo lungo così? E poi, gli ultimi anni sono stati di enorme intensità, siamo stati vicini vicini. E’ stato bellissimo.
E non ho nessun rimpianto, non c’è niente che avrei voluto dirti e non ti ho detto. Questo mi dà sollievo, nell’immenso dolore che provo e che in certi momenti mi sommerge. E’, per certi versi, un dolore bello perché mi tiene legato a te.
Qualche sera fa mi sono messo a riguardare il telefono, i messaggi intorno all’8 giugno di quest’anno, e non mi sono trattenuto. Noa è venuta lì da me, mi si è seduta in braccio e mi ha abbracciato, senza dire niente. Il giorno dopo ha raccontato a sua madre che aveva visto piangere suo padre per la prima volta.
Piangevo perché il lutto è figlio dell’amore. Il primo è grande nella misura in cui è stato grande il secondo. E io ti ho voluto bene, tanto. Come a poche, pochissime persone.
Grazie di tutto.
Ciau, me amis.
venerdì 16 novembre 2018
TAV
VERITA’ E BUFALE SUL TAV TORINO LIONE
di Paolo Mattone, Livio Pepino e Angelo Tartaglia
di Paolo Mattone, Livio Pepino e Angelo Tartaglia
Il “contratto di governo” tra M5Stelle e
Lega prevede, con riguardo alla Nuova linea ferroviaria Torino-Lione,
«l’impegno a ridiscutere integralmente il progetto nell’applicazione
dell’accordo tra Italia e Francia». A ciò il ministro delle
infrastrutture Toninelli ha aggiunto l’ovvio: cioè che, in attesa di
tale confronto, ogni determinazione diretta a realizzare un avanzamento
dell’opera sarebbe considerata dal Governo «un atto ostile». Indicazioni
assai caute, dunque, ben lungi da una dichiarazione di ostilità al Tav.
Poi silenzio e rinvio all’analisi costi-benefici in corso di
elaborazione da parte di una apposita commissione. Il tutto lasciando al
loro posto, come rappresentanti del Governo, sfegatati supporter della
nuova linea ferroviaria come Mario Virano, direttore generale di Telt
(promotore pubblico responsabile della realizzazione e della gestione
della sezione transfrontaliera della futura linea Torino-Lione), e Paolo
Foietta, commissario straordinario del Governo per l’asse ferroviario
Torino-Lione e presidente dell’Osservatorio della Presidenza del
Consiglio originariamente costituito come luogo di studio e di confronto
tra le parti interessate (e diventato ormai l’ultima ridotta dei
sostenitori del Tav senza se e senza ma).
Tanto è bastato, peraltro, a produrre un
duplice effetto. Da un lato ha finalmente aperto un dibattito sulla
effettiva utilità dell’opera, fino a ieri esorcizzato dalla
rappresentazione del movimento No Tav, complice la Procura della
Repubblica di Torino, come un insieme di trogloditi e di terroristi.
Dall’altro ha mandato in fibrillazione i promotori (pubblici e privati)
dell’opera, l’establishment affaristico, finanziario e politico che la sostiene e i grandi media che ne sono espressione (Stampa e Repubblica
in testa) che, non paghi di ripetere luoghi comuni ultraventennali
sulla necessità dell’opera per evitare l’isolamento del Piemonte
dall’Europa (sic!), hanno cominciato ad evocare fantasiose penali in caso di recesso dell’Italia.
In questo contesto e per consentire un
confronto razionale, in attesa delle indicazioni della commissione
preposta all’analisi costi benefici e delle conseguenti decisioni
politiche, è, dunque, utile fare il punto sulla situazione, partendo
dall’esame delle affermazioni più diffuse circa l’utilità dell’opera.
Primo. «La nuova linea ha una valenza strategica e unirà l’Europa da est a ovest».
Prospettiva da statisti, che il governatore del Piemonte, Chiamparino sottolinea, con slancio futurista, evocando un collegamento tra l’Atlantico e il Pacifico (senza considerare che la stazione atlantica è scomparsa nel 2012, con la rinuncia del Portogallo, e che dalla prevista stazione finale di Kiev mancano, per arrivare a Vladivostok e al Pacifico, oltre 7.000 km…). Prospettiva, comunque, priva di ogni riscontro reale, posto che una linea ferroviaria ad alta capacità/velocità non è prevista in modo compiuto neppure in Lombardia e Veneto, che il tratto sloveno non esiste nemmeno sulla carta, che in Ungheria e Ucraina nessuno sa che cosa sia il Corridoio 5, come inizialmente si chiamava la linea (cose tutte documentate, con una accurata indagine in loco, in un servizio giornalistico di Andrea De Benedetti e Luca Rastello pubblicato su Repubblica e diventato poi un libro edito da Chiare Lettere con il titolo Binario morto). La realtà dunque, al netto di bufale interessate e di anacronistici sogni di grandeur, non è quella di una nuova “via della seta” ma, assai più prosaicamente, del solo collegamento ferroviario tra Torino e Lione (235 chilometri, comprensivi di un tunnel di 57 chilometri), già coperto da una linea ripetutamente ammodernata e utilizzata per un sesto delle sue potenzialità. Di ciò, non di altro, si deve, dunque, discutere valutandone costi e benefici. Il resto è fuffa, chiacchiera senza fondamento o, peggio, specchietto per allodole.
Prospettiva da statisti, che il governatore del Piemonte, Chiamparino sottolinea, con slancio futurista, evocando un collegamento tra l’Atlantico e il Pacifico (senza considerare che la stazione atlantica è scomparsa nel 2012, con la rinuncia del Portogallo, e che dalla prevista stazione finale di Kiev mancano, per arrivare a Vladivostok e al Pacifico, oltre 7.000 km…). Prospettiva, comunque, priva di ogni riscontro reale, posto che una linea ferroviaria ad alta capacità/velocità non è prevista in modo compiuto neppure in Lombardia e Veneto, che il tratto sloveno non esiste nemmeno sulla carta, che in Ungheria e Ucraina nessuno sa che cosa sia il Corridoio 5, come inizialmente si chiamava la linea (cose tutte documentate, con una accurata indagine in loco, in un servizio giornalistico di Andrea De Benedetti e Luca Rastello pubblicato su Repubblica e diventato poi un libro edito da Chiare Lettere con il titolo Binario morto). La realtà dunque, al netto di bufale interessate e di anacronistici sogni di grandeur, non è quella di una nuova “via della seta” ma, assai più prosaicamente, del solo collegamento ferroviario tra Torino e Lione (235 chilometri, comprensivi di un tunnel di 57 chilometri), già coperto da una linea ripetutamente ammodernata e utilizzata per un sesto delle sue potenzialità. Di ciò, non di altro, si deve, dunque, discutere valutandone costi e benefici. Il resto è fuffa, chiacchiera senza fondamento o, peggio, specchietto per allodole.
Secondo. «La nuova linea creerà nuovi orizzonti di traffico».
Non è così. I traffici merci su rotaia attraverso il Frejus (ché di persone non si parla più da vent’anni) sono in caduta libera dal 1997. Da allora si sono ridotti del 71 per cento. Lo ammette persino l’Osservatorio istituito presso la Presidenza del Consiglio riconoscendo che «molte previsioni fatte 10 anni fa, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, sono state smentite dai fatti». Nello stesso periodo i traffici nella direzione Italia-Svizzera hanno continuato a crescere: del 43 per cento nel periodo 1997-2007, quando pure le linee ferroviarie italo svizzere passavano attraverso tunnel ad altitudine e con pendenze analoghi a quelli del Frejus (il tunnel del Lötschberg, lungo 14,6 km ad una altitudine di 1400 metri, e quello storico del S. Gottardo, lungo 15 km ad una altitudine di 1151 metri, in uso fino al 2016). Parallelamente il volume del traffico complessivo (compreso quello su strada) attraverso la frontiera italo-francese è diminuito del 17,7 per cento. Ciò dimostra che le ragioni della caduta di traffico sono strutturali e non hanno nulla a che vedere con le caratteristiche tecniche della linea ferroviaria, il cui ammodernamento non attira di per sé solo nuovo traffico (come l’ampliamento del letto di un fiume non produce magicamente l’aumento del flusso dell’acqua). Più specificamente il quadro d’insieme dice che lungo la direttrice transalpina est-ovest è in atto da tempo una tendenza al calo del flusso di merci o quanto meno a una sua stagnazione, laddove lungo le direttrici nord-sud (frontiere italo-svizzera e italo-austriaca) il traffico ha continuato a crescere, anche se, dopo il 2010, la crescita risulta meno vivace che prima della crisi finanziaria del 2008. Una interpretazione ragionevole di questa differenza è che le direttrici nord-sud collegano il cuore dell’Europa con i porti della sponda nord del Mediterraneo e da lì con l’estremo oriente. I mercati della Cina e del sudest asiatico sono lontani dalla saturazione e per di più quel sistema produttivo è in grado di fornire merci di rimpiazzo delle nostre a prezzi nettamente più bassi. Viceversa l’asse est-ovest collega mercati intereuropei fra loro simili e in condizioni di saturazione materiale: guardando a ciò che si trova in una tipica casa italiana (o francese o britannica o spagnola) è difficile pensare di poter aggiungere molte cose; al più si può pensare di rimpiazzare le dotazioni con manufatti più moderni o di migliore qualità. Tutto questo si traduce in una stabilizzazione dei flussi materiali che si mantengono a un livello elevato, ma senza particolari prospettive di crescita.
Non è così. I traffici merci su rotaia attraverso il Frejus (ché di persone non si parla più da vent’anni) sono in caduta libera dal 1997. Da allora si sono ridotti del 71 per cento. Lo ammette persino l’Osservatorio istituito presso la Presidenza del Consiglio riconoscendo che «molte previsioni fatte 10 anni fa, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, sono state smentite dai fatti». Nello stesso periodo i traffici nella direzione Italia-Svizzera hanno continuato a crescere: del 43 per cento nel periodo 1997-2007, quando pure le linee ferroviarie italo svizzere passavano attraverso tunnel ad altitudine e con pendenze analoghi a quelli del Frejus (il tunnel del Lötschberg, lungo 14,6 km ad una altitudine di 1400 metri, e quello storico del S. Gottardo, lungo 15 km ad una altitudine di 1151 metri, in uso fino al 2016). Parallelamente il volume del traffico complessivo (compreso quello su strada) attraverso la frontiera italo-francese è diminuito del 17,7 per cento. Ciò dimostra che le ragioni della caduta di traffico sono strutturali e non hanno nulla a che vedere con le caratteristiche tecniche della linea ferroviaria, il cui ammodernamento non attira di per sé solo nuovo traffico (come l’ampliamento del letto di un fiume non produce magicamente l’aumento del flusso dell’acqua). Più specificamente il quadro d’insieme dice che lungo la direttrice transalpina est-ovest è in atto da tempo una tendenza al calo del flusso di merci o quanto meno a una sua stagnazione, laddove lungo le direttrici nord-sud (frontiere italo-svizzera e italo-austriaca) il traffico ha continuato a crescere, anche se, dopo il 2010, la crescita risulta meno vivace che prima della crisi finanziaria del 2008. Una interpretazione ragionevole di questa differenza è che le direttrici nord-sud collegano il cuore dell’Europa con i porti della sponda nord del Mediterraneo e da lì con l’estremo oriente. I mercati della Cina e del sudest asiatico sono lontani dalla saturazione e per di più quel sistema produttivo è in grado di fornire merci di rimpiazzo delle nostre a prezzi nettamente più bassi. Viceversa l’asse est-ovest collega mercati intereuropei fra loro simili e in condizioni di saturazione materiale: guardando a ciò che si trova in una tipica casa italiana (o francese o britannica o spagnola) è difficile pensare di poter aggiungere molte cose; al più si può pensare di rimpiazzare le dotazioni con manufatti più moderni o di migliore qualità. Tutto questo si traduce in una stabilizzazione dei flussi materiali che si mantengono a un livello elevato, ma senza particolari prospettive di crescita.
Terzo.
«Il collegamento ferroviario Italia-Francia deve essere ammodernato
perché obsoleto e fuori mercato a causa di limiti strutturali
inemendabili».
Dopo la favola dell’imminente saturazione della linea storica, sostenuta contro ogni evidenza per vent’anni, i proponenti dell’opera e i loro sponsor politici si attestano ora su presunte esigenze dettate dalla modernità, che imporrebbe di «trasformare – con il tunnel transfrontaliero di 57 chilometri – l’attuale tratta di valico in una linea di pianura, così permettendo l’attraversamento di treni merci aventi masse di carico pari a quasi il triplo di quelle consentite dal Frejus» (così la relazione scritta al disegno di legge di ratifica degli accordi intergovernativi tra Italia e Francia del 2015-16, depositata alla Camera dal relatore di maggioranza, on. Marco Causi, il 19 dicembre 2016). La debolezza della tesi è di tutta evidenza, anche a prescindere dalla determinazione fantasiosa dei carichi destinati a transitare nel nuovo tunnel. Se, infatti, il traffico è in costante diminuzione e agevolmente assorbito dalla linea storica con le pendenze che la caratterizzano (e che per di più – come si è visto – non sono state di ostacolo all’aumento del traffico ferroviario tra Italia e Svizzera) a che serve un intervento modificativo che comporta rischi ambientali enormi e una spesa di miliardi? A giustificarlo c’è soltanto una cultura sviluppista senza limiti, sempre più anacronistica ma non intaccata, agli occhi dei suoi epigoni, neppure da una tragedia come quella del ponte Morandi di Genova, decantato per decenni come simbolo della capacità della tecnica di superare città e montagne. Non sussistono infatti, a sostegno dell’opera, nemmeno ragioni legate a una non meglio precisata normativa, ogni tanto evocata ma sempre senza riferimenti specifici, in forza della quale il tunnel storico sarebbe presto “fuori norma” (come, se così fosse, tutte le gallerie ferroviarie e buona parte di quelle autostradali del Paese…).
Dopo la favola dell’imminente saturazione della linea storica, sostenuta contro ogni evidenza per vent’anni, i proponenti dell’opera e i loro sponsor politici si attestano ora su presunte esigenze dettate dalla modernità, che imporrebbe di «trasformare – con il tunnel transfrontaliero di 57 chilometri – l’attuale tratta di valico in una linea di pianura, così permettendo l’attraversamento di treni merci aventi masse di carico pari a quasi il triplo di quelle consentite dal Frejus» (così la relazione scritta al disegno di legge di ratifica degli accordi intergovernativi tra Italia e Francia del 2015-16, depositata alla Camera dal relatore di maggioranza, on. Marco Causi, il 19 dicembre 2016). La debolezza della tesi è di tutta evidenza, anche a prescindere dalla determinazione fantasiosa dei carichi destinati a transitare nel nuovo tunnel. Se, infatti, il traffico è in costante diminuzione e agevolmente assorbito dalla linea storica con le pendenze che la caratterizzano (e che per di più – come si è visto – non sono state di ostacolo all’aumento del traffico ferroviario tra Italia e Svizzera) a che serve un intervento modificativo che comporta rischi ambientali enormi e una spesa di miliardi? A giustificarlo c’è soltanto una cultura sviluppista senza limiti, sempre più anacronistica ma non intaccata, agli occhi dei suoi epigoni, neppure da una tragedia come quella del ponte Morandi di Genova, decantato per decenni come simbolo della capacità della tecnica di superare città e montagne. Non sussistono infatti, a sostegno dell’opera, nemmeno ragioni legate a una non meglio precisata normativa, ogni tanto evocata ma sempre senza riferimenti specifici, in forza della quale il tunnel storico sarebbe presto “fuori norma” (come, se così fosse, tutte le gallerie ferroviarie e buona parte di quelle autostradali del Paese…).
Quarto. «I costi dell’opera sono assai più ridotti di quanto si dica, ammontando, per l’Italia, a soli 2, massimo 3 miliardi di euro».
Siamo di fronte a una sorta di “gioco delle tre carte”, assai poco rispettoso della verità e dell’intelligenza degli italiani (e dei francesi). Il costo dell’intera opera, infatti, è stato determinato dalla Corte dei conti francese nel 2012 – senza successivi aggiornamenti o rettifiche – in 26 miliardi di euro, di cui 8,6 miliardi destinati alla tratta transnazionale (per la quale è previsto un finanziamento europeo pari, nella ipotesi più favorevole, al 40 per cento del valore e cioè a 3,32 miliardi di euro). I dati diffusi dai fautori dell’opera, invece, riguardano la sola tratta internazionale, che, data la scelta del Governo italiano di proceder per fasi (cd. progetto low cost), dovrebbe essere costruita per prima. Ma ciò, anche a prescindere dalla prevedibile dilatazione dei costi rispetto a quelli preventivati (basti pensare che il 28 febbraio 2018 Cipe ha portato a 6,3 miliardi di euro il «costo complessivo di competenza italiana per la sezione transfrontaliera», indicato poco più di due anni prima in 2,56 miliardi…), realizza un puro artificio contabile ché l’ulteriore spesa (salva l’ipotesi, del tutto fuori dalla realtà, di realizzare un tunnel senza le necessarie adduzioni) non viene affatto annullata ma semplicemente differita.
Siamo di fronte a una sorta di “gioco delle tre carte”, assai poco rispettoso della verità e dell’intelligenza degli italiani (e dei francesi). Il costo dell’intera opera, infatti, è stato determinato dalla Corte dei conti francese nel 2012 – senza successivi aggiornamenti o rettifiche – in 26 miliardi di euro, di cui 8,6 miliardi destinati alla tratta transnazionale (per la quale è previsto un finanziamento europeo pari, nella ipotesi più favorevole, al 40 per cento del valore e cioè a 3,32 miliardi di euro). I dati diffusi dai fautori dell’opera, invece, riguardano la sola tratta internazionale, che, data la scelta del Governo italiano di proceder per fasi (cd. progetto low cost), dovrebbe essere costruita per prima. Ma ciò, anche a prescindere dalla prevedibile dilatazione dei costi rispetto a quelli preventivati (basti pensare che il 28 febbraio 2018 Cipe ha portato a 6,3 miliardi di euro il «costo complessivo di competenza italiana per la sezione transfrontaliera», indicato poco più di due anni prima in 2,56 miliardi…), realizza un puro artificio contabile ché l’ulteriore spesa (salva l’ipotesi, del tutto fuori dalla realtà, di realizzare un tunnel senza le necessarie adduzioni) non viene affatto annullata ma semplicemente differita.
Quinto. «Il potenziamento del trasporto su rotaia è, finalmente, una scelta di tutela dell’ambiente».
Siamo alla variante ecologista, tanto suggestiva quanto infondata. Essa, infatti, muove dal rilievo, in linea di principio esatto, che il trasporto su rotaia è meno inquinante di quello su strada. Ma non tiene conto del fatto che ciò vale solo in una situazione data, cioè con riferimento alle ferrovie e alle autostrade esistenti, mentre del tutto diverso è il caso specifico, in cui si prevede la costruzione ex novo di un’opera ciclopica. Con alcuni dati che modificano totalmente lo scenario: gli effetti dello scavo di un tunnel di 57 chilometri in una montagna a forte presenza di amianto e uranio con un cantiere ventennale che produrrà un inquinamento certo, a fronte di un recupero successivo del tutto incerto; gli ingenti consumi energetici per il sistema di raffreddamento del tunnel la cui temperatura interna sarà superiore a 50 gradi, e via elencando. Si noti che le emissioni in atmosfera nella fase di realizzazione (e quindi in tempi vicini) dovrebbero essere compensate dalle minori emissioni del trasporto ferroviario in un arco di decenni, mentre gli obiettivi internazionali per contenere il mutamento climatico globale richiedono una drastica riduzione delle emissioni nell’immediato: non per caso ma perché l’atmosfera ha un comportamento tutt’altro che lineare. In altre parole ciò che si immette nell’atmosfera sarà riassorbito in tempi estremamente lunghi e gli impatti perdureranno anche in assenza di nuove immissioni.
Siamo alla variante ecologista, tanto suggestiva quanto infondata. Essa, infatti, muove dal rilievo, in linea di principio esatto, che il trasporto su rotaia è meno inquinante di quello su strada. Ma non tiene conto del fatto che ciò vale solo in una situazione data, cioè con riferimento alle ferrovie e alle autostrade esistenti, mentre del tutto diverso è il caso specifico, in cui si prevede la costruzione ex novo di un’opera ciclopica. Con alcuni dati che modificano totalmente lo scenario: gli effetti dello scavo di un tunnel di 57 chilometri in una montagna a forte presenza di amianto e uranio con un cantiere ventennale che produrrà un inquinamento certo, a fronte di un recupero successivo del tutto incerto; gli ingenti consumi energetici per il sistema di raffreddamento del tunnel la cui temperatura interna sarà superiore a 50 gradi, e via elencando. Si noti che le emissioni in atmosfera nella fase di realizzazione (e quindi in tempi vicini) dovrebbero essere compensate dalle minori emissioni del trasporto ferroviario in un arco di decenni, mentre gli obiettivi internazionali per contenere il mutamento climatico globale richiedono una drastica riduzione delle emissioni nell’immediato: non per caso ma perché l’atmosfera ha un comportamento tutt’altro che lineare. In altre parole ciò che si immette nell’atmosfera sarà riassorbito in tempi estremamente lunghi e gli impatti perdureranno anche in assenza di nuove immissioni.
Sesto. «Con il Tav diminuiranno, comunque, i Tir sull’autostrada e il connesso inquinamento».
Anche questa è una pura petizione di principio con la quale si dà per certo un fatto (lo spontaneo abbandono dell’autostrada da parte dei Tir e il loro passaggio alla ferrovia) tutto da dimostrare e legato a variabili future e incerte in punto costi (e non solo). Ma c’è di più. Se davvero si volesse realizzare uno spostamento consistente del traffico dalla gomma alla rotaia la strada maestra sarebbe quella (sperimentata con successo e a costo pubblico zero in Svizzera) di imporre pedaggi significativi per il traffico stradale (proporzionati al tipo di veicolo, al carico e alla distanza) e di prevedere tariffe agevolate per quello ferroviario. La soluzione è semplice e poco costosa, ma va in direzione opposta alle politiche adottate, nel nostro Paese, da tutti i Governi (di ogni colore) succedutisi negli ultimi decenni, che prevedono incentivi per il carburante e i pedaggi autostradali in favore dei camionisti… Passare dagli incentivi alle penalizzazioni sarebbe certo una sfida complessa, foriera di aspri conflitti e con rischi di blocchi delle forniture di cilena memoria. Ma millantare aspirazioni ecologiste mentre si praticano politiche contrarie non è operazione spendibile!
Anche questa è una pura petizione di principio con la quale si dà per certo un fatto (lo spontaneo abbandono dell’autostrada da parte dei Tir e il loro passaggio alla ferrovia) tutto da dimostrare e legato a variabili future e incerte in punto costi (e non solo). Ma c’è di più. Se davvero si volesse realizzare uno spostamento consistente del traffico dalla gomma alla rotaia la strada maestra sarebbe quella (sperimentata con successo e a costo pubblico zero in Svizzera) di imporre pedaggi significativi per il traffico stradale (proporzionati al tipo di veicolo, al carico e alla distanza) e di prevedere tariffe agevolate per quello ferroviario. La soluzione è semplice e poco costosa, ma va in direzione opposta alle politiche adottate, nel nostro Paese, da tutti i Governi (di ogni colore) succedutisi negli ultimi decenni, che prevedono incentivi per il carburante e i pedaggi autostradali in favore dei camionisti… Passare dagli incentivi alle penalizzazioni sarebbe certo una sfida complessa, foriera di aspri conflitti e con rischi di blocchi delle forniture di cilena memoria. Ma millantare aspirazioni ecologiste mentre si praticano politiche contrarie non è operazione spendibile!
Settimo. «La
realizzazione della Torino-Lione è una straordinaria occasione di
crescita occupazionale che sarebbe assurdo accantonare, soprattutto in
epoca di crisi economica».
L’affermazione è un caso scolastico di mezza verità trasformata in colossale inganno. Che la costruzione di un’opera – grande o piccola, utile o dannosa – produca posti di lavoro è incontestabile (accade anche se si scavano buche al solo scopo di provvedere poi a riempirle…). Il punto dirimente non è, dunque, questo, ma l’utilità sociale dell’opera e la quantità e qualità dei posti di lavoro da essa generati comparativamente con altri possibili investimenti. Soprattutto in una situazione di difficoltà economica, come quella attuale, in cui non ci sono risorse per tutto e un investimento ne esclude altri. Orbene, l’esperienza dimostra in modo inoppugnabile che un piano di messa in sicurezza del territorio è molto più utile (superfluo ricordarlo nell’Italia dei crolli, delle frane e delle esondazioni) e assai più efficace in termini di creazione di posti di lavoro di qualunque infrastruttura ciclopica. Le grandi opere sono, infatti, investimenti ad alta intensità di capitale e a bassa intensità di mano d’opera (con pochi posti di lavoro per miliardo investito e per un tempo limitato) mentre gli interventi diffusi di riqualificazione del territorio e di aumento dell’efficienza energetica producono un’alta intensità di manodopera a fronte di una relativamente bassa intensità di capitale (con creazione di più posti di lavoro per miliardo investito e per durata indeterminata). Sia sul versante dell’utilità sociale che su quello della crescita occupazionale, dunque, la nuova linea ferroviaria Torino-Lione è tutt’altro che l’affare evocato dai proponenti e dai loro sponsor politici.
L’affermazione è un caso scolastico di mezza verità trasformata in colossale inganno. Che la costruzione di un’opera – grande o piccola, utile o dannosa – produca posti di lavoro è incontestabile (accade anche se si scavano buche al solo scopo di provvedere poi a riempirle…). Il punto dirimente non è, dunque, questo, ma l’utilità sociale dell’opera e la quantità e qualità dei posti di lavoro da essa generati comparativamente con altri possibili investimenti. Soprattutto in una situazione di difficoltà economica, come quella attuale, in cui non ci sono risorse per tutto e un investimento ne esclude altri. Orbene, l’esperienza dimostra in modo inoppugnabile che un piano di messa in sicurezza del territorio è molto più utile (superfluo ricordarlo nell’Italia dei crolli, delle frane e delle esondazioni) e assai più efficace in termini di creazione di posti di lavoro di qualunque infrastruttura ciclopica. Le grandi opere sono, infatti, investimenti ad alta intensità di capitale e a bassa intensità di mano d’opera (con pochi posti di lavoro per miliardo investito e per un tempo limitato) mentre gli interventi diffusi di riqualificazione del territorio e di aumento dell’efficienza energetica producono un’alta intensità di manodopera a fronte di una relativamente bassa intensità di capitale (con creazione di più posti di lavoro per miliardo investito e per durata indeterminata). Sia sul versante dell’utilità sociale che su quello della crescita occupazionale, dunque, la nuova linea ferroviaria Torino-Lione è tutt’altro che l’affare evocato dai proponenti e dai loro sponsor politici.
Ottavo.
«Trent’anni fa si sarebbe potuto discutere ma oggi i lavori sono ormai
in uno stato di avanzata realizzazione e non si può tornare indietro».
Con questa considerazione, ripetuta nei varî salotti televisivi, provano a salvare la propria immagine anche molti sedicenti ambientalisti. Invano, ché l’affermazione è priva di ogni consistenza. Del tunnel transfrontaliero, infatti, non è stato a tutt’oggi scavato neppure un centimetro. Certo sono state realizzate delle opere preparatorie, tra cui lo scavo, in territorio francese, di cinque chilometri di tunnel geognostico impropriamente spacciato, in decine di filmati e interviste a tecnici e politici, per l’inizio del traforo ferroviario. E sono state spese, per esse, ingenti risorse (circa un miliardo e 500 milioni di euro). Ma ciò rende solo più urgente una decisione, che deve intervenire prima dell’inizio dei lavori per la realizzazione del tunnel di base e i cui termini sono drammaticamente semplici: a fronte di un’opera dannosa per gli equilibri ambientali e per le finanze pubbliche (come dimostrato dalle analisi di costi e benefici effettuate da studiosi accreditati come il francese Prud’Homme e gli italiani Debernardi e Ponti), conviene di più contenere i danni (mettendo una croce sul miliardo e mezzo colpevolmente speso sino ad oggi) o continuare in uno spreco di miliardi?
Con questa considerazione, ripetuta nei varî salotti televisivi, provano a salvare la propria immagine anche molti sedicenti ambientalisti. Invano, ché l’affermazione è priva di ogni consistenza. Del tunnel transfrontaliero, infatti, non è stato a tutt’oggi scavato neppure un centimetro. Certo sono state realizzate delle opere preparatorie, tra cui lo scavo, in territorio francese, di cinque chilometri di tunnel geognostico impropriamente spacciato, in decine di filmati e interviste a tecnici e politici, per l’inizio del traforo ferroviario. E sono state spese, per esse, ingenti risorse (circa un miliardo e 500 milioni di euro). Ma ciò rende solo più urgente una decisione, che deve intervenire prima dell’inizio dei lavori per la realizzazione del tunnel di base e i cui termini sono drammaticamente semplici: a fronte di un’opera dannosa per gli equilibri ambientali e per le finanze pubbliche (come dimostrato dalle analisi di costi e benefici effettuate da studiosi accreditati come il francese Prud’Homme e gli italiani Debernardi e Ponti), conviene di più contenere i danni (mettendo una croce sul miliardo e mezzo colpevolmente speso sino ad oggi) o continuare in uno spreco di miliardi?
Nono.
«L’uscita dal progetto comporterebbe per l’Italia il pagamento di
penali (o un dovere di restituzioni) elevatissime, fino a un ammontare
di due miliardi e 500 milioni».
Qui siamo di fronte a una bufala allo stato puro. Non esiste, infatti, alcun documento europeo sottoscritto dall’Italia che preveda penali o risarcimenti di qualsivoglia tipo in caso di ritiro dal progetto; gli accordi bilaterali tra Francia e Italia non prevedono alcuna clausola che accolli a una delle parti, in caso di recesso, compensazioni per lavori fatti dall’altra parte sul proprio territorio; il nostro codice civile prevede, in caso di appalti aggiudicati che, ove il soggetto appaltante decida di annullarli, le imprese danneggiate hanno diritto a un risarcimento comprensivo della perdita subita e del mancato guadagno che ne sia conseguenza immediata (per un ammontare che, di regola, non supera il 10 per cento del valore dell’appalto), ma, ad oggi, non sono stati banditi né, tanto meno, aggiudicati appalti per opere relative alla costruzione del tunnel di base; il Grant Agreement del 25 novembre 2015, sottoscritto da Italia, Francia e Unione europea, dispone, nell’allegato II, articoli 16 e 17, che «nessuna delle parti ha diritto di chiedere un risarcimento in seguito alla risoluzione ad opera di un’altra parte», prevedendo sanzioni amministrative e pecuniarie nel solo caso in cui il beneficiario di un contributo abbia commesso irregolarità o frodi (o altre analoghe scorrettezze); i finanziamenti europei sono erogati solo in base all’avanzamento dei lavori (e vengono persi in caso di mancato completamento nei termini prefissati), sì che la rinuncia di una delle parti non comporta alcun dovere di restituzione di contributi ‒ mai ricevuti ‒ bensì, semplicemente, il mancato versamento da parte dell’Europa dei contributi previsti (e ciò anche a prescindere dal fatto che ad oggi i finanziamenti europei ipotizzati sono una minima parte del 40 per cento del valore del tunnel di base e che ulteriori eventuali stanziamenti dovranno essere decisi solo dopo la conclusione del settennato di programmazione in corso, cioè dopo il 2021).
Qui siamo di fronte a una bufala allo stato puro. Non esiste, infatti, alcun documento europeo sottoscritto dall’Italia che preveda penali o risarcimenti di qualsivoglia tipo in caso di ritiro dal progetto; gli accordi bilaterali tra Francia e Italia non prevedono alcuna clausola che accolli a una delle parti, in caso di recesso, compensazioni per lavori fatti dall’altra parte sul proprio territorio; il nostro codice civile prevede, in caso di appalti aggiudicati che, ove il soggetto appaltante decida di annullarli, le imprese danneggiate hanno diritto a un risarcimento comprensivo della perdita subita e del mancato guadagno che ne sia conseguenza immediata (per un ammontare che, di regola, non supera il 10 per cento del valore dell’appalto), ma, ad oggi, non sono stati banditi né, tanto meno, aggiudicati appalti per opere relative alla costruzione del tunnel di base; il Grant Agreement del 25 novembre 2015, sottoscritto da Italia, Francia e Unione europea, dispone, nell’allegato II, articoli 16 e 17, che «nessuna delle parti ha diritto di chiedere un risarcimento in seguito alla risoluzione ad opera di un’altra parte», prevedendo sanzioni amministrative e pecuniarie nel solo caso in cui il beneficiario di un contributo abbia commesso irregolarità o frodi (o altre analoghe scorrettezze); i finanziamenti europei sono erogati solo in base all’avanzamento dei lavori (e vengono persi in caso di mancato completamento nei termini prefissati), sì che la rinuncia di una delle parti non comporta alcun dovere di restituzione di contributi ‒ mai ricevuti ‒ bensì, semplicemente, il mancato versamento da parte dell’Europa dei contributi previsti (e ciò anche a prescindere dal fatto che ad oggi i finanziamenti europei ipotizzati sono una minima parte del 40 per cento del valore del tunnel di base e che ulteriori eventuali stanziamenti dovranno essere decisi solo dopo la conclusione del settennato di programmazione in corso, cioè dopo il 2021).
Decimo.
«Per mettere in sicurezza il tunnel storico del Fréjus serviranno a
breve da 1,4 a 1,7 miliardi di euro: meglio, anche sul piano economico,
costruirne uno nuovo».
L’ultimo nato delle motivazioni pro Tav è la sicurezza: «il tunnel esistente dovrebbe essere adeguato a caro prezzo in quanto a canna singola e doppio binario e senza vie di fuga intermedie; non ne vale la pena e tanto vale abbandonarlo per sostituirlo con il nuovo super tunnel di base». Il tema della sicurezza è certamente un argomento sensibile in particolare dopo qualche disastro. Ma quello che non viene considerato è che se le motivazioni fossero quelle addotte, un intervento ben più urgente ‒ a cui destinare le scarse risorse disponibili e del quale, curiosamente, nessuno parla – dovrebbe essere effettuato sulla linea ad alta velocità Bologna-Firenze che comprende quasi 74 chilometri di gallerie (la più lunga, quella di Vaglia, di 18,713 chilometri, cinque in più del Fréjus) tutte a canna singola e doppio binario, senza tunnel di soccorso, con un traffico molto più intenso che al Fréjus e in buona parte ad alta velocità. Né va dimenticato che nella galleria del Fréjus sono stati effettuati lavori di adeguamento tra il 2003 e il 2011 spendendo qualche centinaio di milioni di euro e si può evidenziare come, per la parte francese, l’intervento è stato effettuato al risparmio e in difformità da quanto correttamente (una volta tanto) fatto nella parte italiana. Ai francesi, che già hanno provveduto ad addossare all’Italia (col consenso di un nostro distratto Parlamento) una parte dell’eventuale costo del nuovo tunnel di base decisamente sbilanciata a loro favore, occorrerebbe chieder conto delle carenze del tunnel “storico” dovute al loro modo di lavorare.
L’ultimo nato delle motivazioni pro Tav è la sicurezza: «il tunnel esistente dovrebbe essere adeguato a caro prezzo in quanto a canna singola e doppio binario e senza vie di fuga intermedie; non ne vale la pena e tanto vale abbandonarlo per sostituirlo con il nuovo super tunnel di base». Il tema della sicurezza è certamente un argomento sensibile in particolare dopo qualche disastro. Ma quello che non viene considerato è che se le motivazioni fossero quelle addotte, un intervento ben più urgente ‒ a cui destinare le scarse risorse disponibili e del quale, curiosamente, nessuno parla – dovrebbe essere effettuato sulla linea ad alta velocità Bologna-Firenze che comprende quasi 74 chilometri di gallerie (la più lunga, quella di Vaglia, di 18,713 chilometri, cinque in più del Fréjus) tutte a canna singola e doppio binario, senza tunnel di soccorso, con un traffico molto più intenso che al Fréjus e in buona parte ad alta velocità. Né va dimenticato che nella galleria del Fréjus sono stati effettuati lavori di adeguamento tra il 2003 e il 2011 spendendo qualche centinaio di milioni di euro e si può evidenziare come, per la parte francese, l’intervento è stato effettuato al risparmio e in difformità da quanto correttamente (una volta tanto) fatto nella parte italiana. Ai francesi, che già hanno provveduto ad addossare all’Italia (col consenso di un nostro distratto Parlamento) una parte dell’eventuale costo del nuovo tunnel di base decisamente sbilanciata a loro favore, occorrerebbe chieder conto delle carenze del tunnel “storico” dovute al loro modo di lavorare.
La conclusione è evidente.
La prosecuzione del progetto non ha
alcuna utilità economica o necessità giuridica e si spiega solo con gli
interessi di gruppi finanziari privati e con le esigenze di immagine di
un ceto politico che sarebbe definitivamente travolto dal suo abbandono.
Perché, dunque, continuare?
domenica 15 luglio 2018
UN UOMO, UNA PANCIA, UNA SPIAGGIA. UN NOME.
Come Erasmo da Rotterdam
Come Francesco Da Assisi
Come Attilio da Torre Pellice
o, nella finzione letteraria, come Guglielmo da Baskerville
Lui caratterizza la caletta di Itanos, punta estrema del levante Cretese. Lì su quella spiaggia ha organizzato lo spazio sotto uno dei preziosi alberi con pietre, pezzi di rete, materassini ed altri ammenicoli.
In barba alle regole, qui peraltro un po' lasche, come in buona parte del mediterraneo.
E lì se ne sta, pachidermico.
Pachidermicità che è figlia di quel suo continuo mangiucchiare e sbevazzare, negli intervalli fra un pasto e l’altro. Comodamente disteso.
Lui non lascia la macchina al parcheggio, arriva con il suo piccolo fuoristrada stinto fino a pochi centimetri dalla sua postazione, E da lì regna sovrano.
La sua postazione è dotata anche di radiolina perennemente accesa. Ci sono testimoni affidabili che riferiscono di averla trovata accesa alle sei del mattino. Un po' come si fa da noi vicino ai campi di patate. Una radiolina accesa per tenere lontani i cinghiali.
Lui forse la tiene accesa per tenere lontani i rompiballe.
Che siamo tutti noi.
E’ chiaro che lo pensa, basta incrociare il suo sguardo una volta sola.
Tutti noi stranieri, noi che non andiamo ad omaggiarlo e riverirlo come fanno i locali, alcuni dei quali vengono addirittura ammessi alla mensa del signore.
Noi, che non ci avviciniamo per paura dei suoi modi burberi.
Noi, che i nostri bambini hanno paura di vedere la palla finire per sbaglio sotto il suo tavolo, o che si fanno fotografare in fretta sulle sue panchine quando lui non c’è, e poi scappano via veloci.
Noi che le nostre donne non capiscono perché ne parliamo, tanto lo schifano.
Con i locali è diverso. Loro arrivano e subito vanno a porgere gli ossequi. Lui lo immaginiamo godere di queste attenzioni, e lo vediamo che pare pontificare, dispensare consigli, chiacchiere, consigli per battesimi e funerali, benedizioni laiche.
La sua barchetta è ormeggiata nella caletta, lì davanti. Ma solo una volta negli anni è stato visto usarla. Inteso che è stato visto da noi. Ma ora che ci penso effettivamente noi frequentiamo la spiaggia solo in orari canicolari, e lui in quelle ore giace sdraiato all’ombra del suo albero/casa, e mangiucchia, e spilucca. Si mette seduto solo per mangiare. A volte per guardare intensamente il mare.
Quando una necessità impellente lo chiama, allora entra in acqua e provvede. Senza dissimulare, come facciamo noi comuni mortali. Prende in mano il pisellino e lo spruzza in mare.
In realtà i due non si vedono dal vivo dall’anno 1988, prima che la panza assumesse dimensioni tali da rendere impossibile un contatto visivo senza la mediazione di uno specchio.
Il suo aspetto, la extraterritorialità di fatto della sua baracca rispetto alla repubblica greca, la sua panza visibile dai satelliti, ci fanno pensare ad un noto e simpatico personaggio dei fumetti, quello che vive con i suo amico nano nel villaggio gallico assediato dai romani.
E quindi ho deciso, lo chiamiamo Obeliscos da Itanos.
mercoledì 4 luglio 2018
I VECCHIETTI SILENTI DI ITANOS.
Il bar trattoria Itanos affaccia sulla piazza principale di
Palekastro, il municipio più levantino di Creta. La sala ha concesso poco alla
modernità, sopravvivono tovaglie a quadretti e pannelli di legno alle pareti.
Si distingue dagli altri locali della piazza per la
frequentazione di vecchietti. Silenti.
E' il posto dove guardo i mondiali di calcio.
Fino alle cinque del pomeriggio il posto è pressochè vuoto e
del tutto silenzioso. L'aria è immobile. I vecchietti li immagino riposare
nelle stanze ombrose e fresche delle loro case nel villaggio. Immagino anche le
mogli in cucina a preparare la cena di parecchie ore dopo, brontolando
sull'apatia dei mariti.
Io arrivo qualche minuto prima dell'inizio della partita
pomeridiana. Non c'è traccia di turisti. C'è un solo vecchietto, seduto ad uno
dei tavolini.
Non sta guardando il televisore, ed ha già davanti l'espresso
ed il bicchiere d'acqua che la padrona (una donna che sorride solo agli
stranieri, imbruttita da un naso impegnativo) gli ha servito. La Signora da lì
in poi non sbaglierà più un colpo. Ad ogni vecchietto la sua consumazione, senza
bisogno di parole, nemmeno di cenni. Entro due minuti dall'ingresso al bar si
trovano davanti la tazza con il caffè in diverse versioni ed il bicchiere d'acqua senza bollicine.
Ed eccoli, dunque che arrivano, questi silenti vecchietti di
Itanos. Viaggiano fra i sessanta e gli ottanta. Qualcuno fatica un poco a
portarsi in giro. La divisa d'ordinanza prevede rigorosamente pantaloni lunghi
e camiciotto. Alcune ascelle oggi non hanno salutato il sapone e, ad ogni
alzata di braccio, ce ne si accorge senza sforzo.
In mano tutti hanno il rosario, che sgranano o fanno girare
fra le dita.
Mano a mano si sistemano ai tavolini, da soli a coppie a
terzetti.
E stanno lì, silenziosi, senza alcun cenno di interesse verso
la partita, verso gli altri. Guardano verso la piazza, guardano nel vuoto.
Senza parlare. Senza parlarsi.
Qualcuno, al più, tamburella sul tavolo con le dita,
ostinatamente, come in attesa di chissà che.
Uno solo, arrivando, ha provato a salutare ad alta voce, ha
anche alzato una mano.
Lo hanno ignorato.
Ma non sono arrabbiati, si vede. Semplicemente sono lì, come
prima erano altrove.
Non sono arrivati al bar, ci si sono materializzati.
La partita va avanti, è bella.
Li guardo. Saranno quasi una decina. Non ce n'è uno che stia
guardando il televisore. Non ce n'è uno che stia parlando. E sarà così per
quasi due ore.
Ad un certo punto uno
di loro, seduto in compagnia (si fa per dire...) di un collega mutanghero come
lui, si alza e si sposta lento verso un
altro tavolo dove già stanno seduti in due. Il tutto senza che una parola
accompagni la partenza, il trasferimento, l'arrivo. Il vecchietto rimasto da
solo al tavolino appoggia la testa su un braccio e prende a scrutare, un pò in
tralice, quell'altro che lo ha abbandonato.
L'incontro è ricco di gol, a più riprese dagli altri locali
della piazza si alzano le urla dei tifosi transalpini. Qui al bar Itanos
silenzio assoluto.
E si va avanti così. Ci si chiede che minchia siano venuti a
fare. Devono avere delle mogli impegnative.
Sono meravigliosi. Questo posto è
quello che cerco quando vado in giro per il mondo. Autenticità.
Improvvisamente le campane della chiesa ortodossa della
piazza iniziano a suonare. E' come se si fosse acceso un interruttore che abbia
acceso anche i vecchietti. Tutti contemporaneamente si segnano ripetutamente e
vigorosamente. Poi, così come si acceso, l'interruttore invisibile si spegne. E
loro con lui.
Solo poche volte, in quasi due ore, una voce flebile si alza
da un tavolino alle mie spalle. Uno degli argentini si chiama “Di Maria”, e
quando il telecronista greco lo nomina, da dietro si sente dire “Maria...”. Ma
non è una voce, pare più un sospiro, un borbottare, un gorgoglio. Poi la sala
torna nel suo mutismo.
Chi sarà stata Maria per quel vecchietto?
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