"La differenza sta nel fatto che Zisis sa spiegare molto meglio le cose che penso anche io, quelle che io non riesco a esprimere, anzi che mi si bloccano dentro"
(Petros Markaris, "La resa dei conti", ultima pagina).
Per giorni ho cercato le parole. Non perchè dovevo dire qualcosa, perchè volevo dire qualcosa. Mi venivano in mente solo cose tipo, rabbia, indignazione, vergogna, impotenza. Vere, anche se non particolarmente originali. Ho letto e ascoltato, commenti più che cronaca. Ma quello che volevo esprimere non si trasformava in parole.
Poi ieri ho letto questa cosa. Ci aveva pensato lui a scrivere quello che avrei voluto dire io. Lui è Massimo Gramellini.
Questa sera vi racconterò la storia di Kebrat, una ragazza di 24 anni con i capelli ricci, di un nero che tende al rosso.
Giovedì mattina, credendola senza vita, l’hanno adagiata
sulla banchina del porto di Lampedusa accanto ai cadaveri, avvolta come
un pacco regalo in un foglio di alluminio dorato da cui spuntavano solo
le braccia unte di nafta. Aveva la pancia talmente gonfia di acqua e
gasolio che, oltre che morta, sembrava incinta.
Poi all’improvviso Kebrat ha aperto gli occhi e dopo una
corsa in elicottero è approdata in un ospedale di Palermo. Tutta
tremante, con un filo di voce dietro la mascherina dell’ossigeno, ha
raccontato a un’infermiera la sua avventura.
Kebrat è scappata dall’Eritrea con un gruppo di amici. È
scappata da un dittatore sanguinario che spedisce i dissidenti a
lavorare in miniera come schiavi e ha trasformato l’antica colonia
italiana in un carcere dove le guardie di frontiera sono autorizzate a
sparare addosso ai fuggiaschi. Eppure Kebrat ce l’ha fatta. Ha
attraversato il deserto del Sudan, prima a piedi e poi su un camion, e
dopo due mesi inenarrabili ha raggiunto il porto libico di Misurata. Ha
guardato il mare e la bagnarola che stava per salpare, senza neanche
sapere dove l’avrebbero portata. L’importante era andare via. Ha
consegnato i risparmi familiari di una vita allo scafista tunisino che
si faceva chiamare The Doctor. E prima di partire ha indossato il
vestito della festa.
Durante il viaggio non ha mangiato nulla. Ha bevuto acqua di
mare perché c’era il sole e aveva tanta sete. Ogni tanto ha pregato Dio
con gli altri profughi in tutte le religioni possibili.
Alle tre di notte di giovedì il mare era grosso, e appena in
lontananza è apparsa la terra a Kebrat è scappato da ridere. I suoi
brothers, come i profughi eritrei si chiamano tra loro, sventolavano le
magliette in segno di giubilo.
Ma a mezzo miglio dalla costa il motore si è rotto. Kebrat
non ha avuto paura: vedeva le luci dell’isola e delle altre barche. Un
peschereccio si è avvicinato, poi è andato via. La ragazza ha urlato, ma
quelli non sentivano o non volevano sentire. (Kebrat non sa che in
Italia chi aiuta un profugo rischia l’avviso di garanzia per
favoreggiamento. E non sa nemmeno che il Frontex, l’organismo europeo di
pattugliamento che ci costa 87 milioni l’anno, è talmente sofisticato
da non vedere un barcone di legno a mezzo miglio dalla costa).
È stato allora che qualcuno, per attirare l’attenzione, ha
dato fuoco a una coperta. Hanno provato a spegnere le fiamme con altre
coperte e con l’acqua di mare, ma è stato inutile. Così è arrivata la
paura, tutti gridavano, si stringevano, si spostavano dall’altra parte
del barcone, che ha cominciato a ondeggiare. Quando ha visto un suo
amico ridotto a torcia umana, Kebrat ha trovato il coraggio di gettarsi
nell’acqua gelida.
Ha visto donne che cercavano di tenere a galla i loro
bambini, le ha viste affondare nel buio. Sembrava che salutassero,
finché le braccia andavano giù.
Poi non ha visto più niente. Con in bocca il sapore del
gasolio e del sale, riusciva solo a sentire le urla: come di gabbiani,
ma erano persone. Ha nuotato, prendendo a schiaffi l’acqua per ore.
Quando era allo stremo, a malincuore si è tolta l’abito inzuppato,
pensando che il suo peso l’avrebbe portata a fondo. A quel punto è
svenuta.
Ora è qui, nell’ospedale di Palermo, in prognosi riservata
per lesioni gravi ai polmoni. Del vestito della festa le è rimasta solo
la parte superiore del reggiseno, sulle cui coppe aveva scritto i numeri
di telefono dei familiari.
Ma l’infermiera che ha ascoltato la sua storia non sopporta
che Kebrat rimanga nuda. Raggiunge il suo armadietto, afferra una maglia
bianca, la taglia e la adagia sopra di lei. “Prendila tu, a me non
serve”.
Stasera andrò a letto chiedendomi come fa il mio Paese a
ritenere giusta una legge che considera Kebrat una criminale, colpevole
del reato di immigrazione clandestina, punibile con l’espulsione
immediata e la multa fino a 5mila euro.
Buonanotte.
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