Il mattino dopo la festasa prepariamo
tutto e lasciamo l'albergo, passiamo ancora a salutare Paulina e le
sorelle di Rose. C'è ancora il tempo di giocare a rimpiattino con
una Signora che fa finta di non volersi fare fotografare, ma poi mi
allarga dei sorrisi grandi così quando la inquadro. E' tornata anche una zia di Rose, ha un foulard in testa, fotografo anche lei.
Facciamo la
classica foto di gruppo (dalla quale si nota come almeno un paio di
elementi bianchi della famiglia non siano proprio entusiasti di stare
lì fermi a guardare uno che scatta a ripetizione...).
Quando stiamo
per partire Paulina ci regala una canzone, che nei giorni successivi
più volte risuonerà all'interno del minibus in giro per l'ovest
Uganda.
Traversiamo una zona con straordinari paesaggi, sono
piantagioni di thè. Mi viene la voglia di tornare qui, fermarmi
almeno una notte ed andare a fare foto alle piantagioni nella luce
del mattino. La polizia stradale ci ferma 7 volte in un paio di ore.
Mai ci viene chiesto un solo scellino. “Perchè ci siete voi
Musungu”, ci dice l'autista. Altrimenti la regola non scritta dice
2000 scellini. Una volta i poliziotti ci chiedono un
passaggio(!?). In realtà sono molto gentili, nel tratto in cui loro
sono a bordo con noi stiamo appunto traversando la zona del thè, e
si sprecano le esclamazioni, tra le quali naturalmente “Mamma
mia!”. Allora il poliziotto che mi siede accanto inizia a chiedermi
se siamo spagnoli o italiani e si chiacchiera un po'. Prima di
scendere fanno due coccole alle bimbe e se ne vanno, di bianco
vestiti.
Arriviamo al Parco Queen Elizabeth (intitolato alla sovrana
britannica dopo una sua visita al parco decenni orsono) abbastanza
tardi, l'ultimo tratto di asfalto è disastroso e poi c'è una pista
sterrata piena di buche e polvere. Siamo alla penisola Mweya, vicino
al lago Edward, diviso a metà fra Uganda e Repubblica Democratica
del Congo. Alloggiamo in una casa all'interno di un campo, finalmente
l'autista ha una camera per lui, ho scoperto da poco che a Ibanda ha
dormito nel minibus. Subito usciamo con una guida, ma il giro è
abbastanza deludente perchè mi aspettavo di vedere più animali. Ci
fermiamo in un poverissimo villaggio sulle rive del lago dove da
secoli lavorano il sale. In acqua ci sono parecchi Ippopotami, e
riesco a coglierne un paio che si fronteggiano con la bocca
spalancata. La mia contentezza risale subito.
L’avvenimento della
giornata arriva alla fine: stiamo rientrando da un giro pomeridiano
con una guida, ormai è quasi buio e siamo a poche cento metri dalla
sbarra del campo. Un urlo di Rose “Stop! Lion!!”, l’autista si
ferma e torna indietro, Blanca chiude il finestrino anziché aprirlo,
ma non si è sbagliata lo ha fatto intenzionalmente; nella penombra
sulla sinistra della strada, a dieci quindici metri, si vede
benissimo la sagoma del leone maschio.
E’ un momento di brividi, la
guida fa spegnere il minibus, le luci, le bocche, tutto. Il leone, che ha scosso
la criniera e guardato per un attimo nella nostra direzione quando ha
visto che il minibus ha fatto retromarcia, resta fermo per un attimo,
poi cammina parallelamente alla strada, e sparisce nella vegetazione
bassa.
Ripartiamo, ma per tutta la sera ne riparleremo, le bambine
sono eccitate e spaventate ad un tempo. Chi sogna il leone e la mattina dopo è ancora lì che ne parla. Chi chiama la mamma a metà notte perchè la vuole nel letto con sè.
Tutti siamo impressionati,
non ce lo aspettavamo. Quanti minuti insignificanti viviamo nella
nostra vita abituale, quella di tutti i giorni, quella delle
abitudini? Quanti minuti della nostra vita passata siamo in grado di
isolare con la memoria? Anche questo momento dura un minuto, ma è
uno di quelli che ci ricorderemo.
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