mercoledì 30 ottobre 2013

BISOGNA COMINCIARE QUANDO SONO PICCOLI!

Blanca e Noa, autunno 2011

«se riesci a far innamorare i bambini di un libro, o due, o tre, cominceranno a pensare che leggere è un divertimento. Così, forse, da grandi diventeranno dei lettori. E leggere è uno dei piaceri e uno degli strumenti più grandi della nostra vita».Roald Dahl

Oggi ho sentito una notizia interessante alla radio, diceva così: "un editore ha pensato a come aiutare chi, genitore o insegnante, si ritrova a doversi orientare nella giungla dell'offerta dei libri per ragazzi senza sapere bene da dove cominciare. E per farlo ha deciso di condividere la sua esperienza preparando un elenco con 12 titoli imbattibili, impeccabili, inimitabili."

Essendo un mangialibri, ma vivendo in una nazione dove 54 cittadini su 100 non leggono nemmeno un libro all'anno, ho pensato di diffondere la lista.

Roald Dahl, La fabbrica di cioccolato 
Luis Sepúlveda, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare 
Astrid Lindgren, Pippi Calzelunghe
Daniel Pennac, L'occhio del lupo
Jostein Gaarder, C'è nessuno?
David Almond, Skellig 
Roddy Doyle, Il trattamento ridarelli 
Silvana Gandolfi, L'isola del tempo perso
Jacqueline Kelly, L'evoluzione di Calpurnia 
Paul Van Loon, L'autobus del brivido 
Michael Ende, La storia infinita 
Uri Orlev, L'isola in via degli uccelli

giovedì 17 ottobre 2013

IO, PENTITO

Il Signor EmmeGi nella capitale sabauda, qualche giorno prima del fattaccio, febbraio 2013.

La prima cosa che succede quanto cade un regime è spesso l'abbattimento della statua del dittatore di turno. Abbiamo visto cadere statue di Lenin, di Saddam, eccetera. La caduta della statua, di per sé, non cambia in meglio la vita della gente. Che lo sa bene, ma la statua la butta giù comunque. Perchè abbattendo la statua abbatte un simbolo.
Perchè i simboli sono importanti.
Solo gli stolti possono pensare che una riduzione degli stipendi dei parlamentari da solo migliorerebbe lo stato dell'economia, ma siamo in molti a pretendere questo passo, che sappiamo bene essere simbolico.
Perchè i simboli sono importanti.
Ieri si celebrava il settantesimo anniversario della deportazione verso Auschwitz di 1259 ebrei dal ghetto di Roma, di cui 200 erano bambini. Alla fine sono tornati a casa in 16, nessuno dei bambini. (Se volete potete approfondire cliccate  QUI).
E proprio ieri il senato della repubblica italiana stava per approvare una provvedimento che avrebbe reso un reato la negazione dello sterminio degli ebrei. Stava per approvare il provvedimento con una scorciatoia, se ho capito bene. Tuttavia io non credo che sia necessario approfondire la comprensione di che cosa sia il negazionismo. Quindi non trovo scandalosa la scorciatoia, in questo caso. Ma qualcuno si è messo di mezzo, facendo saltare il provvedimento, che è stato rinviato e, molto probabilmente verrà approvato comunque tra un po'. Senza entrare nel merito del fatto in sé (qualcuno dice “abbiamo bisogno di punire chi esprime un idea, per quanto abbietta essa possa essere?!”, o ancora “una democrazia che rende reato l'espressione di un'opinione, non è una democrazia compiuta”) io trovo vergognoso che ci si sia messi di mezzo, nel quadro di una politica del “No a tutto ed a tutti”, o motivando la cosa con il fatto che non si intendeva inseguire l'approvazione a tutti i costi del provvedimento proprio ieri, perchè tale coincidenza era solamente simbolica. Come se non avessimo bisogno dei simboli, soprattutto su certi argomenti. Chi lo ha fatto ha dato un chiaro segnale politico. Si potrebbe pensare che di questo non si siano resi conto, che lo abbiano fatto con ingenuità, perchè sono nuovi dell'ambiente.
Forse, ma se così fosse sarebbe ancora peggio.

L'episodio di ieri, insieme a quello della settimana scorsa sul reato di clandestinità mi hanno portato a completare un percorso che per me è iniziato pochi giorni dopo le elezioni di febbraio.
Un percorso di pentimento.

Ho dato uno dei miei due voti a chi ha dimostrato in questi mesi di non meritarlo, l'ho fatto perchè mi ero illuso. L'ho fatto perchè nauseato dal livello degli altri partiti che peggiora, senza pause né segnali di ripresa, da almeno 20 anni a questa parte. 
Ho sbagliato, ho sbagliato di brutto. In questi mesi ho avuto moltissimi motivi per rendermene conto. Ormai da mesi mi sono cancellato dalla mailing list, che l'uomo forte di turno (di cui gli italiani hanno così disperatamente bisogno, e la storia lo dimostra chiaramente) usa per calare il verbo sul popolo bue. Ho cancellato il sito dal segnalibri di internet. Ciò non cambia la questione nel concreto, giustamente l'uomo forte di turno se ne può fottere.
Ma per me sono stati atti simbolici.
Ed i simboli sono importanti.

Non vi voterò più, nemmeno alle regionali, nemmeno al villaggio se vi presentate la prossima primavera. Non posso. Anche se so che molti sono mossi sinceramente dalla voglia di cambiamento. Non posso appoggiare a livello locale un movimento che a livello nazionale assume certe posizioni.
Siete come Mario Balotelli.
Una bella occasione sprecata.

sabato 12 ottobre 2013

LA SPOSA TUNISINA - ULTIMO GIORNO


Questa è l’ultima sera del matrimonio di Chakra. Lei lascerà la casa di famiglia per trasferirsi al villaggio del suo sposo, di fatto entrando a fare parte della famiglia di lui. E’ un momento forte dal punto di vista emotivo, non è solo il culmine della festa. Quando arriviamo a casa sua ci sono una ventina di persone, soprattutto donne, una è seduta in terra e suona un piccolo tamburo, molte cantano canzoni tradizionali. 


Lei indossa un vestito ancora diverso da quello delle sere prima, ma lo stile è sempre quello, tra fantascienza e Bollywood. E’ chiaramente emozionata, però sorride, e continuerà a farlo anche nel prosieguo della serata. Non abbiamo mai vissuto un matrimonio così da dentro, e non ho mai visto le spose sorridere così. Meno male, sono contento per lei, mi pare una brava ragazza. Giorni fa ci ha detto che lui la chiese in sposa già anni fa, ma lei rifiutò. Poi ha cambiato idea, si narra che lui sia una gran lavoratore (“Ed è anche gentile”, ha aggiunto, quasi come a sottolineare il fatto che ha avuto fortuna, che non sia scontato il fatto che ti sposi con uno che poi ti tratta bene). Facciamo un po’ di foto, anche con Moni che riesce a fare due chiacchiere con lei (la sintesi è “Chakra, hai paura?” “Bien sur, Monique...”). 



Riesco a scambiare un paio di battute con J,. mi parla un attimo del suo lavoro, sono contento per lei, anche se è una donna dal sorriso triste. Improvvisamente però cambia il tono della conversazione, lei e Monia parlano fitto fitto, vedo che la madre di J. sta dicendo qualcosa, e Monia che le risponde decisa. Più tardi saprò che la madre stava dicendo alla figlia di tornare con il marito, un altro che alzava le mani, dal quale ha divorziato. Lei ci sta pensando “per il bambino”, dice a Monia, la quale pensa che se lei torna indietro questa volta lui “non la picchierà, l’ammazzerà...”. Mi ha sempre colpito questo fatto per cui sovente sono le madri le figure che portano avanti la tradizione, mettendo apparentemente in secondo piano la felicità dei propri figli o figlie. Cerco di stare attento a non giudicare una cosa che non conosco, però devo fare questa constatazione.

 Dopo una mezz’oretta improvvisamente aumenta il brusio, sta arrivando il corteo con lo sposo! Rapido conciliabolo con la moglie per organizzare il controllo delle figlie, per qualche minuto ci sarà un po’ di bordello nel cortile. Lo sposo arriva accompagnato da una moltitudine, in mano un mazzo di gelsomino. Con lui ci sono anche i due musici della prima sera. Incenso, fumo, urla, musica, canti. Fotografo ufficiale e operatore video. Piano piano lo sposo si avvicina a Chakra, le consegna il mazzetto di fiori, poi i due restano uno accanto all’altra mentre si scatenano le danze, se capisco bene sono danze di saluto della famiglia della sposa, ci sono tutti i fratelli e le sorelle di lei. Bello.




Saliamo in macchina, in otto bambini compresi, siamo parte del corteo, e ci diamo intensamente con il clacson. Linda, la nipote di Monia, dice che siamo la macchina più rumorosa. Il corteo di auto passa di fronte alla moschea di un villaggio vicino, come segno di augurio, poi in una decina di minuti arriviamo al villaggio dello sposo, ci sono parecchie case a due piani, molti degli abitanti lavorano in Francia, Monia lo descrive come un posto di brave persone, grandi lavoratori. Ci addentriamo nelle strade del villaggio, fino a giungere al cortile… che non è un cortile, è una piazza intera! 


La musica sfonda le orecchie, sembra un concerto dei Motorhead, ci saranno centinaia di persone, tutto il villaggio è presente, momenti di casino indescrivibile, qualcuno prova a sparare dei fuochi d’artificio, che cadono addosso alle persone… Urla, applausi, fischi, bambini. Gli sposi salgono sul palco, dove ballano entrambi sorridenti, e sotto di loro il solito bordello. 



Emerge prepotentemente la figura di un omone sui sessanta anni. Lo avevo già notato l’altra sera a casa della sposa, sembrava uno che la sapeva lunga, si esprimeva con gesti imperiosi, indicando agli altri dove andare, cosa spostare, da che parte passare. Pensavo che si esprimesse a gesti perchè tanto nel casino parlare è inutile. In realtà è muto. Ha un faccione simpatico, sorride sempre. Durante i concitati minuti che seguono l’arrivo degli sposi sotto il palco c’è un casino storico, entrambe le famiglie vogliono salire per ballare, ma non c’è posto per tutti, allora il magnifico si mette a gesticolare, tende il braccio per dare indicazioni, protesta, gesticola, polemizza. Come se qualcuno lo potesse ascoltare in mezzo a questo inferno di decibel. Un genio. Lo capiranno tra cento anni. 
 

 
Blanca è stanca morta, la musica è talmente forte che temo un po’ per i timpani delle figlie. Faccio ancora qualche foto, poi rientriamo a casa.
Buona fortuna, Chakra.
FINE

mercoledì 9 ottobre 2013

LE SUE PAROLE HANNO PARLATO PER ME

"La differenza sta nel fatto che Zisis sa spiegare molto meglio le cose che penso anche io, quelle che io non riesco a esprimere, anzi che mi si bloccano dentro"
(Petros Markaris, "La resa dei conti", ultima pagina).

Per giorni ho cercato le parole. Non perchè dovevo dire qualcosa, perchè volevo dire qualcosa. Mi venivano in mente solo cose tipo, rabbia, indignazione, vergogna, impotenza. Vere, anche se non particolarmente originali. Ho letto e ascoltato, commenti più che cronaca. Ma quello che volevo esprimere non si trasformava in parole.
Poi ieri ho letto questa cosa. Ci aveva pensato lui a scrivere quello che avrei voluto dire io. Lui è Massimo Gramellini.

Questa sera vi racconterò la storia di Kebrat, una ragazza di 24 anni con i capelli ricci, di un nero che tende al rosso.  
Giovedì mattina, credendola senza vita, l’hanno adagiata sulla banchina del porto di Lampedusa accanto ai cadaveri, avvolta come un pacco regalo in un foglio di alluminio dorato da cui spuntavano solo le braccia unte di nafta. Aveva la pancia talmente gonfia di acqua e gasolio che, oltre che morta, sembrava incinta. 
Poi all’improvviso Kebrat ha aperto gli occhi e dopo una corsa in elicottero è approdata in un ospedale di Palermo. Tutta tremante, con un filo di voce dietro la mascherina dell’ossigeno, ha raccontato a un’infermiera la sua avventura. 
Kebrat è scappata dall’Eritrea con un gruppo di amici. È scappata da un dittatore sanguinario che spedisce i dissidenti a lavorare in miniera come schiavi e ha trasformato l’antica colonia italiana in un carcere dove le guardie di frontiera sono autorizzate a sparare addosso ai fuggiaschi. Eppure Kebrat ce l’ha fatta. Ha attraversato il deserto del Sudan, prima a piedi e poi su un camion, e dopo due mesi inenarrabili ha raggiunto il porto libico di Misurata. Ha guardato il mare e la bagnarola che stava per salpare, senza neanche sapere dove l’avrebbero portata. L’importante era andare via. Ha consegnato i risparmi familiari di una vita allo scafista tunisino che si faceva chiamare The Doctor. E prima di partire ha indossato il vestito della festa.  
Durante il viaggio non ha mangiato nulla. Ha bevuto acqua di mare perché c’era il sole e aveva tanta sete. Ogni tanto ha pregato Dio con gli altri profughi in tutte le religioni possibili. 
Alle tre di notte di giovedì il mare era grosso, e appena in lontananza è apparsa la terra a Kebrat è scappato da ridere. I suoi brothers, come i profughi eritrei si chiamano tra loro, sventolavano le magliette in segno di giubilo.  
Ma a mezzo miglio dalla costa il motore si è rotto. Kebrat non ha avuto paura: vedeva le luci dell’isola e delle altre barche. Un peschereccio si è avvicinato, poi è andato via. La ragazza ha urlato, ma quelli non sentivano o non volevano sentire. (Kebrat non sa che in Italia chi aiuta un profugo rischia l’avviso di garanzia per favoreggiamento. E non sa nemmeno che il Frontex, l’organismo europeo di pattugliamento che ci costa 87 milioni l’anno, è talmente sofisticato da non vedere un barcone di legno a mezzo miglio dalla costa).  
È stato allora che qualcuno, per attirare l’attenzione, ha dato fuoco a una coperta. Hanno provato a spegnere le fiamme con altre coperte e con l’acqua di mare, ma è stato inutile. Così è arrivata la paura, tutti gridavano, si stringevano, si spostavano dall’altra parte del barcone, che ha cominciato a ondeggiare. Quando ha visto un suo amico ridotto a torcia umana, Kebrat ha trovato il coraggio di gettarsi nell’acqua gelida.  
Ha visto donne che cercavano di tenere a galla i loro bambini, le ha viste affondare nel buio. Sembrava che salutassero, finché le braccia andavano giù.  
Poi non ha visto più niente. Con in bocca il sapore del gasolio e del sale, riusciva solo a sentire le urla: come di gabbiani, ma erano persone. Ha nuotato, prendendo a schiaffi l’acqua per ore. Quando era allo stremo, a malincuore si è tolta l’abito inzuppato, pensando che il suo peso l’avrebbe portata a fondo. A quel punto è svenuta. 
Ora è qui, nell’ospedale di Palermo, in prognosi riservata per lesioni gravi ai polmoni. Del vestito della festa le è rimasta solo la parte superiore del reggiseno, sulle cui coppe aveva scritto i numeri di telefono dei familiari. 
Ma l’infermiera che ha ascoltato la sua storia non sopporta che Kebrat rimanga nuda. Raggiunge il suo armadietto, afferra una maglia bianca, la taglia e la adagia sopra di lei. “Prendila tu, a me non serve”. 
Stasera andrò a letto chiedendomi come fa il mio Paese a ritenere giusta una legge che considera Kebrat una criminale, colpevole del reato di immigrazione clandestina, punibile con l’espulsione immediata e la multa fino a 5mila euro. 
Buonanotte.

domenica 6 ottobre 2013

IN UNA PAUSA DEL MATRIMONIO

Stamattina ho fatto un giro per il villaggio, ma non l’ho visto, così ho chiesto a Monia di chiamarlo, che gli dicesse di passare da casa. Verso le 5 se ne arriva, così scendo al caffè e gli porto i biscotti che ho comprato per i suoi figli, e facciamo due parole. Dopo un po’ gli dico “ho trovato gente che rimpiange Ben Alì”, allora lui, che ha conosciuto il bastone del regime, mi dice “la rivoluzione non si è completata, ci sono uomini che avevano ruoli di responsabilità nel regime, e che hanno interesse all’instabilità, perché la stabilità porterebbe a dei processi nei loro confronti per i crimini che hanno commesso. Una rivoluzione riesce se porta ad un vero cambiamento del sistema, se la si pianifica, se i capi si fanno dei calcoli prima di cominciarla. Se si hanno almeno 80-90% di possibilità di riuscita si può fare, altrimenti occorre pazientare. Lo dice anche il Corano – se non ci sono tali condizioni le rivolte sono vietate! - dopo la rivoluzione del 2011 mi è capitato di parlare alla moschea dopo la preghiera del venerdì (è la più importante della settimana) ed ho detto queste cose, mi hanno mandato via! Cosa abbiamo ottenuto? Siamo passati da un ladro a 11 milioni di ladri! Ora non c’è il controllo, possono rubare tutti”

 

E lo dice uno che avrebbe molti motivi per gioire della fine del regime, che non aveva la mano tenera con chi era sospettato di essere un integralista.
Poi, senza preavviso, alza il vestito e mi mostra le cicatrici che ha sulle gambe, ricordo delle torture della polizia. Sono i segni degli accendisigari. Mi racconta, soprattutto a gesti, che lo hanno portato nei sotterranei del ministero degli interni a Tunisi (“là sotto c’era un odore terribile”), lo hanno appeso per le mani e picchiato giorno e notte, per una settimana. Interviene anche Nabil, il fratello di Monia, il quale mi racconta che il barbuto era talmente controllato che anche al suo matrimonio c’erano i poliziotti a sorvegliarlo. Nabil andò a prenderlo per portarlo ad una delle feste del matrimonio stesso, e la polizia li fermò “Ma non hanno mai trovato niente, perché io non facevo niente…”.
Il fatto dei controlli meno severi da parte dello stato è un discorso che ritorna nei discorsi delle persone, in effetti. Lo dice sia chi rimpiange il regime precedente, sia chi appoggia il cambiamento. Però il concetto di “controllo severo” è sempre questione di punti di vista, perché invece io resto colpito dal fatto che qui in banca si entra come in un qualsiasi negozio, che le porte delle gioiellerie sono aperte, che il traffico è una bolgia, quello si che è senza controllo, ma in questo nulla è cambiato.

martedì 1 ottobre 2013

LA SPOSA TUNISINA - GIORNO DUE


Il palco è stato allestito nel cortile di fronte la casa della sposa. Sul palco hanno portato il trono, sul quale lei siederà quando giungerà alla festa. Dall'altro lato è montato il mixer del deejay, partecipammo al suo matrimonio anni fa, lo andammo a prendere a casa con la nostra macchina. Ci riconosciamo subito a vicenda, la stretta di mano è vigorosa. Di fronte al palco è stato montato un finto vialetto, con finte fontane e finte piante.

 
 
 
Noi siamo qui da una mezz’ora. Le donne di qua, gli uomini dietro, come sempre. Proprio davanti al palco ci sono quattro anziane signore, tra le quali Habiba la mamma di Monia, sono un quadretto bellissimo; non mi faccio scappare l’occasione e le fotografo. La musica è fortissima, loro quattro stanno lì placide, come se niente fosse. Che belle!
Fino all’arrivo della sposa niente di rilevante, musica spaccatimpani, penso che a Pantelleria, che è a 100 km da qui, la sentano agevolmente. Tutti restano seduti; l’unico che balla sorridente è Youssef, il bimbo di Wassila. 


Anche oggi la sposa deve avere passato parecchie ore dalla parrucchiera/truccatrice, perché il trucco che esibisce quando arriva alla festa non lo si improvvisa tra amici in un quattro e quattr’otto… Chakra arriva con la macchina del Bresciano, le vanno incontro con l’incenso, lei percorre il finto vialetto che porta al trono, dove stasera siederà sola, la presenza dello sposo non è prevista. Oum Habiba, la mamma di Monia, la accompagna per mano. A fatica sale gli scalini, nel frattempo si scatena un po’ di putiferio, molti si sono alzati per ballare, mi pare siano soprattutto i parenti. Lei dopo un po’ si siede, muoversi dentro quell’enorme vestito non dev’essere facile. Lo si affitta dalla parrucchiera, la stessa che ti trucca e ti fa trucco e capelli per le varie fasi della festa. 


  


Si balla sia sul palco che sotto, sempre e solo donne per un bel po’; solo dopo una mezz’oretta due ragazzi si gettano nella mischia. E sono un casino bravi. Nel complesso lo spettacolo mi piace, la musica non è male; il deejay in questo periodo dell'anno – la stagione dei matrimoni - vive il suo momento di gloria professionale: a tratti prende il microfono e urla un po’: “Yalla! Yalla! Arussa! Arussa!” 
 

 
Si vedono evidenti differenze nell’abbigliamento delle ragazze, di alcune si vede solo il viso, altre sono all’occidentale, con la gonna nemmeno lunga. In alcune il Signor EmmeGi ravvisa le caratteristiche del pane fresco, buono come poche altre cose al mondo. Qualche altra ragazza è vestita in maniera molto vistosa, come dire, kitsch. Moni è seduta poco più avanti di noi, di fronte a lei una ragazza con il visto un casino triste, è un volto famigliare ma non ricordo chi sia. Scopro più tardi chi è e che cosa le è successo. Il fratello, un poco di buono che non può più sfogarsi sulla moglie che lo ha lasciato dopo avere fatto il pieno di botte, qualche mese fa l’ha picchiata con una bottiglia di vetro, lei ha una lunghissima ferita su un braccio. Ogni tanto passa qualcuno, mi saluta, mi stringe la mano, ci scambiamo un come va, poi se ne va; passa una bambina sconosciuta, viene a baciarmi, poi fa lo stesso con Blanca. Moni è vestita con un abito di Monia, nello stile locale, anche lei balla in piena mischia. 


La sposa scende dal trono e percorre avanti e indietro, con un viso non proprio felice, l’orrido vialetto finto a beneficio del cameramen e del fotografo ufficiale. Poi però balla contenta in mezzo alle amiche ed ai famigliari (ha 12 fratelli e sorelle!), certo che con quella maschera di cerone è quasi irriconoscibile, o meglio così conciata mi pare uguale ad altre spose già viste in altre feste. Nel frattempo i bambini hanno occupato il trono della sposa, una bimba ci si è seduta paciosa. Faccio ancora qualche foto, poi io e Blanca andiamo a casa per mano. E la musica va, ma s’interrompe poco dopo il nostro arrivo in camera. Una voce maschile fa l’elenco al microfono dei doni in denaro per la sposa, sento anche un tentativo di pronunciare il mio nome. Buonanotte alla sposa. (CONTINUA...)