venerdì 19 aprile 2013

DIALOGHI TRA PADRI E FIGLI SU QUELLO CHE SUCCEDE DOPO.



Ieri sera ho visto un bel film nel quale, durante un viaggio di famiglia, muore il nonno; il giorno dopo il nipotino va da suo papà, figlio dell’uomo appena morto, e gli chiede dove è andato il nonno. Il papà lo fa sedere vicino a sé e gli racconta la storia dell’acqua, che cambia forma a seconda delle condizioni di calore: se la temperatura è normale l’acqua è liquida, e scorre normalmente; se fa molto freddo, l’acqua si solidifica e si trasfoma in ghiaccio; se fa molto caldo, l’acqua evapora e sale verso il cielo. “Le persone sono come l’acqua. Ci siamo sempre, in forme diverse, ma ci siamo sempre”, dice il papà. “Allora il nonno è evaporato”, dice il bambino.

Questa mattina ero in macchina con Blanca, la portavo a prendere il pulmino che la porta a scuola. Il suo compagno M. stamattina non era con noi.
-          “Papà, esiste un vocabolario di Dio?”
-          “Un vocabolario? Esistono dei libri che parlano di Dio, uno in particolare”
-          “Possiamo comprarlo?”
-          “Lo abbiamo a casa, perché me lo chiedi, amore?”
-          “Perché così se lo leggiamo, capiamo che strada ha fatto il nonno di M.  per andare in cielo”
-          (…)
 Il nonno di M. ieri pomeriggio è uscito per la solita passeggiata, in quella che chiamava “El pulmun vert”, questa zona della montagna dove ci sono le nostre case, lui la chiamava così.
E’ passato un momento, e lui era già andato via. Quando trafficavo in cortile spesso lo sentivo cantare.

lunedì 1 aprile 2013

GLI AMICI DI MICHELE


A fine partita, in qualche modo, festeggiavano tutti. Gli uni festeggiavano la vittoria, il campionato. La terza volta in quattro anni. Una vittoria meritata, nulla da dire. 

Ma gli altri, così in alto non ci erano mai arrivati. Vittoria in Coppa Italia e finalisti in campionato. Nello stesso anno. Fantascienza. Certo, a guardarli in faccia, l'impressione non era quella di una festa. Non sorrideva nessuno, nemmeno quello che aveva appena saputo di essere stato nominato miglior giocatore del campionato. Di lui viene da chiedersi cosa ci voglia per farlo sorridere. Non sorrideva nemmeno l'allenatore, anche lui appena nominato come il migliore fra tutti i colleghi. 

In effetti non tutti i locali festeggiavano sugli spalti. Perchè forse non tutti loro avevano vissuto gli anni '70 ed '80, nel gelo del Filatoio, sotto la neve, esposti al vento gelido, esposti soprattutto ad una serie interminabile di batoste, da fare passare la voglia. Forse non tutti, ma un gruppo di tifosi quel periodo lo ricorda bene. E ieri sera, alla fine della partita, sorridevano comunque. In effetti quelli sono un po' strani, hanno passato anche quest'anno una buona parte delle partire a gridare cose che solo loro capiscono, cose che non c'entravano niente. Cose tipo “geometra!”, “sangue di Maura!”, “Vino, vita!”. Ogni tanto cantavano in lingua lettone. Chi siedeva vicino li guardava con quella faccia un po' così, quell'espressione un po' così. E pensare che sono persone rispettabili, nessun precedente penale, mestieri normali, perfino posti di responsabilità, famiglie, mogli, figli, figlie. 

Hanno vissuto anche quella di ieri sera come se fosse l'ultima partita (in effetti, è stato così...), hanno gridato, patito, festeggiato, bestemmiato anche se alcuni lavorano per la Chiesa Valdese, si sono buttati gli uni addosso gli altri per cinque volte, in mischie che “nemmeno alle scuole medie” sono ammutoliti quando gli altri, i campioni, hanno pareggiato a meno di due minuti dalla fine. Uno, ad un certo punto, è andato via, non reggeva più; ha fatto un giro a piedi fuori, al fresco, poi è tornato. Qualche minuto prima, in un intervallo, diceva “tanto io non ho figli, per farmi venire un infarto tra vent'anni, che mi venga adesso qui, e basta! Ma non mi toccate, eh?! Voglio schiattare qui, contento mentre guardo la Valpe, steso qui per terra...”. 

Per tutta la partita hanno urlato il nome di quell'avversario, quello alto; senza insultarlo, o meglio senza insultarlo troppo, la maggior parte delle volte semplicemente gridavano il suo nome. Così, senza aggiungere altro. E quelli intorno di nuovo a guardarli, con quella faccia un po' così, quell'espressione un po' così. A quell'avversario però, qualche sera prima, avevano chiesto l'autografo, dopo la partita, in pizzeria. E mandavano messaggi agli altri del gruppo, già a casa “sono seduto vicino a lui, mi ha fatto l'autografo!” “Ma va?!”. Lui alla fine, mentre festeggiava la vittoria, li ha perfino guardati, gli ha sorriso, un po' stupito; forse perchè non era sicuro che non si trattasse di una presa per il culo, quel gridare il suo nome senza smettere mai, senza un senso apparente. 

Chi lo sa? 

E poi, ogni cosa deve per forza averlo, un senso apparente?